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Fabularum Phaedri liber quintus
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  Libro quinto delle favole di Fedro
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I giudizi umani mutano facilmente di fronte alla prosopopea di un nome illustre.  

Prologus: idem poeta
Aesopi nomen sicubi interposuero,
cui reddidi iam pridem quicquid debui,
auctoritatis esse scito gratia:
ut quidam artifices nostro faciunt saeculo,
qui pretium operibus maius inveniunt suis,
si marmori ascripserunt Praxitelen novo,
trito Myronem argento, tabulae Zeuxidem.
Adeo fucatae plus vetustati favet
invidia mordax quam bonis praesentibus.
Sed iam ad fabellam talis exempli feror.

Prologo: il poeta stesso
Se in qualche pagina di questo libro inserirò il nome di Esopo a cui già altre volte ho reso quanto gli dovevo sappi che è solo per maggior prestigio: proprio come certi artisti dei nostri giorni che ottengono per le loro opere un maggiore apprezzamento se hanno firmato con il nome di Prassitele le loro statue di recente fattura, con quello di Mirone l'argento cesellato e con quello di Zeusi i loro quadri. A tal punto l'invidia aggressiva fa preferire l'antichità fasulla ai meriti presenti. Ora passo a narrare una favoletta che ne è la prova.
1    
Demetrius rex et Menander poeta
Demetrius qui dictus est Phalereus,
Athenas occupavit imperio improbo.
Ut mos est vulgi, passim et certatim ruit:
"Feliciter." succlamant. Ipsi principes
illam osculantur, qua sunt oppressi, manum,
tacite gementes tristem fortunae vicem.
Quin etiam resides et sequentes otium,
ni defuisse noceat, repunt ultimi;
in quis Menander, nobilis comoediis,
quas, ipsum ignorans, legerat Demetrius
et admiratus fuerat ingenium viri,
unguento delibutus, vestitu fluens,
veniebat gressu delicato et languido.
Hunc ubi tyrannus vidit extremo agmine:
"Quisnam cinaedus ille in conspectum meum
audet venire?" Responderunt proximi:
"Hic est Menander scriptor". Mutatus statim:
"Homo" inquit "fieri non potest formosior".
Il re Demetrio e Menandro
Demetrio, soprannominato Falerio, governò Atene, da tiranno. Il popolo, come è suo costume, si affolla da ogni parte e a gara grida:"Evviva!". Gli stessi cittadini più influenti baciano quella mano da cui sono oppressi, deplorando in cuor loro le tristi vicende della sorte. Anzi, persino gli indifferenti e quelli che vivono in ozio , per ultimi, s'avanzano strisciando perché la loro assenza non li danneggi; e tra costoro Menandro, celebre per le sue commedie che Demetrio aveva letto e, pur non avendolo mai conosciuto di persona, aveva ammirato il talento dell'autore, avanzava tutto profumato, con vesti svolazzanti e con andatura studiata e languida. Come il tiranno lo vide in coda al corteo domandò: "Chi è quell'effeminato che osa venire al mio cospetto?". I più vicini gli risposero: "È Menandro, lo scrittore". Cambiando subito tono, disse: "Non esiste uomo più bello".
2    
Duo milites et latro
Duo cum incidissent in latronem milites,
unus profugit, alter autem restitit
et vindicavit sese forti dextera.
Latrone exciso timidus accurrit comes
stringitque gladium, dein reiecta paenula:
"Cedo" inquit "illum; iam curabo sentiat,
quos attentarit". Tunc, qui depugnaverat:
"Vellem istis verbis saltem adiuvisses modo;
constantior fuissem vera existimans.
Nunc conde ferrum et linguam pariter futilem,
ut possis alios ignorantes fallere.
Ego qui sum expertus quantis fugias viribus,
scio quam virtuti non sit credendum tuae".
Illi assignari debet haec narratio
qui re secunda fortis est, dubia fugax.
I due viandanti e il brigante
Essendo due soldati incappati in un brigante uno se la diede a gambe mentre l'altro oppose resistenza e si difese strenuamente. Dopo che il brigante fu ucciso, trepidante accorre il compagno, impugna la spada e gettatosi il mantello dietro le spalle dice: "Lascialo a me costui! penserò io a fargli capire chi ha aggredito". Allora quello che si era battuto fino all'ultimo sangue: "Vorrei che tu mi avessi aiutato poco fa con simili parole; mi sarei sentito più risoluto, credendole sincere. Ora rinfodera la spada e la lingua ugualmente inutili, per continuare ad ingannare quanti non ti conoscono. Io che, per esperienza, ho imparato a conoscere quanto corri veloce so quanto non bisogna credere al tuo valore". Questo racconto deve applicarsi a chi fa lo spavaldo quando le cose vanno bene e se la da a gambe nelle situazioni pericolose.
3  Come conclude Fedro, questa favola insegna che si debba concedere il perdono a colui che sbaglia senza premeditazione mentre deve essere giudicato degno di ogni castigo chi volutamente causa danno.  
Calvus et musca
Calvi momordit musca nudatum caput;
quam opprimere captans alapam sibi duxit gravem.
Tunc illa irridens: "Punctum volucris parvulae
voluisti morte ulcisci; quid facies tibi,
iniuriae qui addideris contumeliam?"
Respondit: "Mecum facile redeo in gratiam,
quia non fuisse mentem laedendi scio.
Sed te, contempti generis animal improbum,
quae delectaris bibere humanum sanguinem,
optem necare vel maiore incommodo".
Hoc argumentum veniam ei dari docet
qui casu peccat. Nam qui consilio est nocens,
illum esse quamvis dignum poena iudico.
Il calvo e la mosca
Una mosca punzecchiò la testa pelata di un calvo; questo, cercando di schiacciarla, si diede un sonoro ceffone. Allora quella, schernendolo: "Hai voluto vendicare, tentando di ucciderlo, la puntura di un minuscolo insetto alato; cosa farai a te stesso, per aver aggiunto ad un lieve danno un grave sfregio?". Rispose: "Con me stesso mi riconcilio facilmente, perché so che non avevo intenzione di farmi del male. Ma, quanto a te, sfacciato animale di una spregevole razza tu che godi nel bere sangue umano, proprio te vorrei uccidere anche se dovessi farmi un male maggiore". Questa favola insegna che si conceda il perdono a chi sbaglia senza volerlo. Chi invece reca deliberatamente danno, quello lo giudico degno di ogni castigo.
4    
Asinus et porcelli hordeum
Quidam immolasset verrem cum sancto Herculi,
cui pro salute votum debebat sua,
asello iussit reliquias poni hordei.
Quas aspernatus ille sic locutus est:
"Libenter istum prorsus appeterem cibum,
nisi, qui nutritus illo est, iugulatus foret".
Huius respectu fabulae deterritus
periculosum semper vitavi lucrum.
Sed dicis: "Qui rapuere divitias, habent".
Numeremus agedum qui deprensi perierunt.
Maiorem turbam punitorum reperies.
Paucis temeritas est bono, multis malo.
L'asino e l'orzo del maialino
Un tale, avendo offerto in sacrificio un maialino al divino Ercole, cui lo doveva come voto per averlo salvato, ordinò che i resti dell'orzo venissero dati da mangiare al suo asinello. Quello, dopo averli rifiutati, disse: "Ben volentieri divorerei questo cibo gustoso, se chi se ne è nutrito non fosse stato sgozzato". Dissuaso dalle considerazioni suggerite da questa favola, ho sempre evitato guadagni rischiosi. Tu obbietterai : "Quelli che hanno fatto razzia di ricchezze ora le tengono ben strette".
Vediamo di contare quanti, colti sul fatto, sono stati condannati. Scoprirai che il numero dei puniti è maggiore. A poche persone la poca scrupolosità nei guadagni torna a profitto, a molte invece a danno.
5    
Scurra et rusticus
Pravo favore labi mortales solent
et, pro iudicio dum stant erroris sui,
ad paenitendum rebus manifestis agi.
Facturus ludos dives quidam nobilis
proposito cunctos invitavit praemio
quam quisque posset ut novitatem ostenderet.
Venere artifices laudis ad certamina;
quos inter scurra, notus urbano sale,
habere dixit se genus spectaculi
quod in theatro numquam prolatum foret.
Dispersus rumor civitatem concitat.
Paulo ante vacua turbam deficiunt loca.
in scaena vero postquam solus constitit
sine apparatu, nullis adiutoribus,
silentium ipsa fecit exspectatio.
Ille in sinum repente demisit caput
et sic porcelli vocem est imitatus sua,
verum ut subesse pallio contenderent
et excuti iuberent. Quo facto simul
nihil est repertum, multis onerant laudibus
hominemque plausu prosequuntur maximo.
Hoc vidit fieri rusticus: "Non mehercule
me vincet" inquit, et statim professus est
idem facturum melius se postridie.
Fit turba maior. Iam favor mentes tenet
et derisuri, non spectaturi sedent.
Uterque prodit. Scurra degrunnit prior
movetque plausus et clamores suscitat.
Tunc simulans sese vestimentis rusticus
porcellum obtegere (quod faciebat scilicet,
sed, in priore quia nil compererant, latens)
pervellit aurem vero, quem celaverat,
et cum dolore vocem naturae exprimit.
Acclamat populus scurram multo similius
imitatum, et cogit rusticum trudi foras.
At ille profert ipsum porcellum e sinu,
turpemque aperto pignore errorem probans:
"En hic declarat quales sitis iudices."
Il buffone e il villano
Gli uomini di solito cadono in errore per spirito di partigianeria e, insistendo nel loro erroneo giudizio, si trovano a doversi ricredere dinnanzi all'evidenza dei fatti . Un signore, volendo allestire dei giochi solenni, dopo aver messo in palio dei premi, invitò tutti affinchè ognuno desse saggio di nuovi giochi. Presero parte alla gara, per farsi onore, abili giocolieri; tra questi un buffone, noto per i suoi scherzi spiritosi, disse di avere una sorta di spettacolo mai presentato in teatro. La voce si sparge e fa accorrere tutta la città. I posti, poco prima vuoti, non sono sufficienti per la folla. Come il buffone comparve solo sulla scena, senza attrezzature e senza assistenti, la stessa aspettativa produsse un silenzio di tomba. Quello ad un tratto cacciò la testa tra le pieghe del mantello e con la propria voce imitò il grugnito del maiale, tanto che gli spettatori sostenevano che ne tenesse uno vero sotto il mantello e pretesero che lo scuotesse. Fatto ciò e non avendo trovato nulla lo lodano oltre ogni dire e lo acclamano con lunghi e fragorosi battimani. Un contadino vedendo questa scena esclamò:"Per Ercole, costui non mi supererà!", e subito si impegnò pubblicamente a fare il giorno dopo lo stesso numero ma meglio. La folla si accalca in teatro. Lo spirito di partigianeria si impossessa ormai degli spettatori che siedono con l'intenzione di deridere e non di giudicare spassionatamente. Ambedue entrano in scena. Il buffone grugnisce per primo e riscuote applausi e suscita acclamazioni. Poi il contadino, fingendo di coprire sotto gli abiti un porcellino (e lo faceva davvero, ma senza farne accorgere, perché non si era trovato nulla nella prova precedente) tirò con forza un orecchio a quello vero che teneva nascosto, e gli cavò fuori per il dolore un vero grugnito. La folla, sentenzia che il buffone aveva imitato molto meglio ed ottiene che il contadino venga cacciato fuori. Quello allora tira fuori dal mantello il maialino e dimostrando con prova incontrovertibile quanto il giudizio fosse stato di parte dice: "Eccovi qui questo maialino che vi mostra chiaramente che razza di giudici siate!".
6 Pur se di rado può accadere che qualche bene utile ad altri capiti in mano di persone che non sanno di che farsene.
Duo calvi
Invenit calvus forte in trivio pectinem.
Accessit alter aeque defectus pilis.
"Heia." inquit "in commune quodcumque est lucri."
Ostendit ille praedam et adiecit simul:
"Superum voluntas favit; sed fato invido
carbonem, ut aiunt, pro thesauro invenimus".
Quem spes delusit, huic querela convenit.
I due calvi e il pettine
Un calvo trovò per caso un pettine in un crocicchio. Gli si avvicinò un altro ugualmente pelato. "Ehi!", disse. "Qualunque sia il guadagno, dividiamo!". Quello mostrò la cosa trovata e aggiunse al tempo stesso:"La volontà degli dèi ci fu propizia; ma per l'invidia del destino abbiamo trovato, come si suole dire, del carbone anziché un tesoro". Questo lamento si addice a chi è stato deluso nella sua speranza.
7    
Princeps tibicen
Ubi vanus animus aura captus frivola
adripuit insolentem sibi fiduciam,
facile ad derisum stulta levitas ducitur.
Princeps tibicen notior paulo fuit,
operam Bathyllo solitus in scaena dare.
Is forte ludis (non satis memini quibus)
dum pegma rapitur, concidit casu gravi
nec opinans, et sinistram fregit tibiam,
duas cum dextras maluisset perdere.
Inter manus sublatus et multum gemens
domum refertur. Aliquot menses transeunt,
ad sanitatem dum venit curatio.
Ut spectatorum mos est, id lepidum genus
desiderari coepit, cuius flatibus
solebat excitari saltantis vigor.
Erat facturus ludos quidam nobilis.
Ut incipiebat ingredi Princeps, eum
adducit pretio praecibus, ut tantummodo
ipso ludorum ostenderet sese die.
Qui simul advenit, rumor de tibicine
fremit in theatro. Quidam affirmant mortuum,
quidam in conspectum proditurum sine mora.
Aulaeo misso, devolutis tonitribus
di sunt locuti more translaticio.
Tunc chorus ignotum modo reducto canticum
insonuit, cuius haec fuit sententia:
"Laetare, incolumis Roma, salvo principe."
In plausus consurrectum est. Iactat basia
tibicen: gratulari fautores putat.
Equester ordo stultum errorem intellegit
magnoque risu canticum repeti iubet.
Iteratur illud. Homo meus se in pulpito
totum prosternit. Plaudit illudens eques.
Rogare populus hunc coronam existimat.
Ut vero cuneis notuit res omnibus,
Princeps, ligato crure nivea fascia,
niveisque tunicis, niveis etiam calceis,
superbiens honore divinae domus,
ab universis capite est protrusus foras.
Principe il suonatore di flauto
Quando un vanitoso, accecato dal mutevole favore popolare, si lascia travolgere dalla sua folle presunzione, cade facilmente nel ridicolo per la sua sciocca vanità. Principe era un flautista piuttosto noto, solito a prestare sulla scena l'opera sua a Batillo. Un giorno, mentre faceva uno spettacolo (non ricordo bene quale), a causa di una macchina da teatro innalzatasi all'improvviso, cadde malamente quando meno se l'aspettava e si fratturò la gamba sinistra quando invece avrebbe preferito andassero in pezzi le due canne destre (del suo flauto). A braccia fu riportato a casa tutto gemente. Passano parecchi mesi, finché grazie alle cure inizia la convalescenza. Come è abitudine degli spettatori, si cominciò a sentire la mancanza di questo piacevole accompagnamento musicale con il flauto il cui suono era solito stimolare l'energia del ballerino Batillo. Un signore stava allestendo uno spettacolo. Poichè Principe iniziava a fare i primi passi, con preghiere e promesse di denaro lo pregò di farsi semplicemente vedere nel giorno stabilito per lo spettacolo. Arrivato quel giorno la notizia dell'arrivo del flautista corre di bocca in bocca in tutto il teatro. Chi lo dice morto e chi dice che si sarebbe mostrato al pubblico da un momento all'altro. Calato il sipario, scatenati i tuoni, gli dèi parlarono secondo il solito copione. Poi il coro intonò un canto ignoto a lui appena tornato sulla scena, le cui parole erano: "Esulta o Roma immortale perché il principe è salvo". Ci si alzò ad applaudire. Il flautista manda baci: pensa che gli ammiratori si congratulino con lui. L'ordine equestre capisce l'errore grossolano e ridendo a crepapelle vuole che il canto sia ripetuto. Si fa il bis. Il mio uomo si affaccia dal palco. Tutti i cavalieri applaudono irridendolo. La gente crede che voglia la corona. Ma quando in ogni settore del teatro la cosa divenne chiara, Principe, con la gamba fasciata da una benda bianca, con una tunica bianca, bianche anche le scarpe, tronfio per gli onori riservati alla famiglia imperiale da tutti fu buttato fuori con la testa in avanti.
8    
Tempus
Cursu volucri, pendens in novacula,
calvus, comosa fronte, nudo occipitio,
quem si occuparis, teneas; elapsum semel
non ipse possit Iuppiter reprehendere,
occasionem rerum significat brevem.
Effectus impediret ne segnis mora,
Finxere antiqui talem effigiem Temporis.
Il tempo
Dal passo celere, stando in bilico sul filo del rasoio, calvo, con un ciuffo in fronte, la nuca pelata, se riesci ad acciuffarlo, tienilo stretto; una volta sfuggito neppure Giove potrebbe riprenderlo, raffigura l'occasione che fugge. Gli antichi inventarono così l'immagine del Tempo, perché un eccessivo indugiare non impedisse la realizzazione dei progetti.
9    
Taurus et vitulus
Angusto in aditu taurus luctans cornibus
cum vix intrare posset ad praesepia,
monstrabat vitulus quo se pacto plecteret.
"Tace" inquit "ante hoc novi quam tu natus es".
Qui doctiorem emendat sibi dici putet.
Il toro e il vitello
A un toro che stava lottando con le sue corna in uno stretto passaggio, perché a fatica poteva entrare nella stalla un vitello mostrò come dovesse piegarsi. "Zitto!", gli disse il toro. "Lo sapevo da prima che tu nascessi". Chi corregge uno che ne sa di più, tenga come detta per sé questa favola.
10 Il poeta applica questa favola a se stesso ormai vecchio e lento a cogliere l'ispirazione poetica e a fermarla in immagini vive e in divertenti concetti. * "Lacon" (= Làcone, proveniente dalla Laconia). Si trattava di una razza di cani provenienti da Sparta ricercati per la resistenza fisica e la bravura nella caccia.
Canis vetulus et venator
Adversus omnes fortis veloces feras
Canis cum domino semper fecisset satis,
Languere coepit annis ingravantibus.
Aliquando obiectus hispidi pugnae suis
Arripuit aurem, sed cariosis dentibus
Praedam dimisit. Hic tunc venator dolens
Canem obiurgabat. Cui senex contra Lacon:
"Non te destituit animus, sed vires meae.
Quod fuimus lauda, si iam damnas quod sumus".
Hoc cur, Philete, scripserim, pulchre vides.
Il cane vecchiotto e il cacciatore.
Un cane dopo aver sempre accontentato il suo padrone nella caccia alle forti e veloci fiere , cominciò a perdere il suo vigore sotto il peso degli anni. Una volta, aizzato a battersi contro un cinghiale, lo afferrò per un orecchio, ma a causa dei denti cariati, si lasciò sfuggire la preda. Per questo il cacciatore, contrariato, sgridava il cane. A lui il vecchio Làcone*: "Non ti viene a mancare il mio coraggio ma le mie forze. Se ora condanni quel che sono, loda almeno quel che ero".
Tu ben comprendi Filete perchè ho scritto questo.
   
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Ultimo aggiornamento: 01.10.2015
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