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Appendix Perottina
1
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  Appendice Perottina
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1    
Simius et vulpes
Avarum etiam quod sibi superest non libenter dare.


Vulpem rogabat partem caudae simius,
contegere honeste posset ut nudas nates;
cui sic maligna: "Longior fiat licet,
tamen illam citius per lutum et spinas traham,
partem tibi quam quamvis parvam impertiar."
La scimmia e la volpe
L'avaro non da volentieri nemmeno quello che gli avanza.

Una scimmia chiedeva a una volpe un pezzo di coda per coprirsi decorosamente le nude natiche; così gli rispose quell'avara:"Quand'anche diventasse più lunga la trascinerei subito nel fango e tra le spine piuttosto che dividerne con te una parte anche se piccola".
2 E' da savi essere contenti di ciò che si possiede senza desiderare l'irraggiungibile.  
Auctor
Non esse plus aequo petendum

Arbitrio si natura finxisset meo
genus mortale, longe foret instructius:
man cuncta nobis attribuisset commoda,
quaecumque indulgens Fortuna animali dedit:
Elephanti vires, et leonis impetum,
cornicisi aevum , gloriam tauri trucis,
equi velocis placidam mansuetudinem ,
et adesset homini sua tamen sollertia:
Nimirum in caelo secum ridet Iuppiter,
magno haec consilio qui negavit hominibus,
ne sceptrum mundi raperet nostra audacia.
Ergo contenti munere invicti Iovis
fatalis annos decurramus temporis,
nec plus conemur quam sinit mortalitas.
L'autore
Non si deve chiedere più di quanto sia giusto

Se la natura avesse creato gli uomini secondo il mio volere di gran lunga sarebbero più provvisti di buone doti: avrebbe infatti attribuito a noi tutti i doni che la sorte benigna ha dato a tutti gli animali: la forza dell'elefante e lo slancio aggressivo del leone, la longevità della cornacchia , la fierezza del truce toro, la calma e la mansuetudine del veloce cavallo e che l'uomo conservasse la sua intelligenza: Senza dubbio in cielo, Giove, che con grande accortezza ha negato tutto questo agli uomini affinché la nostra audacia non ci permettesse di impadronirci del dominio del mondo, se la ride. Pertanto, contenti dei doni elargiti dall'invincibile Giove, trascorriamo gli anni di vita concessici dal Fato e non desideriamo più di quanto ci consenta la nostra natura mortale.
3    
Mercurius et mulieres duae
De eodem alia fabula

Mercurium hospitio mulieres olim duae
inliberali et sordido receperant;
quarum una in cunis parvum habebat filium,
quaestus placebat alteri meretricius.
Ergo ut referret gratiam officiis parem,
abiturus et iam limen excedens ait:
"Deum videtis; tribuam vobis protinus
quod quaeque optarit." Mater suppliciter rogat
barbatum ut videat natum quam primum suum;
moecha ut sequatur sese quidquid tetigerit.
Volat Mercurius, intro redeunt mulieres.
Barbatus infans, ecce, vagitus ciet.
Id forte meretrix cum rideret validius,
nares replevit umor ut fieri solet.
Emungere igitur se volens prendit manu
traxitque ad terram nasi longitudinem,
et aliam ridens ipsa ridenda extitit.
Mercurio e le due donne
Ancora una favola con lo stesso soggetto

Due donne avevano, un giorno, accolto nel loro tugurio indecoroso e sudicio il dio Mercurio: una di queste aveva il figlio piccolo nella culla all'altra piaceva il guadagno che le veniva dalla attività di meretrice. Ora, mentre se ne stava andando ed era già sulla soglia, per ricompensarle per il servizio disse loro:"State vedendo un dio; vi concederò immediatamente qualunque cosa desideriate". La madre supplica di vedere, quanto prima, il figlio con la barba; la prostituta chiede che ogni cosa che tocca la segua. Mercurio si allontana in volo mentre le due donne rientrano. (Come richiesto) ecco il neonato, a cui è spuntata la barba, che vagisce. Alla meretrice che rideva oltre misura per questo, il nuco, come spesso accade le riempì le narici. Volendosi soffiare il naso lo afferrò con la mano e lo allungò fino a terra e, mentre rideva per l'altra, pure lei si trovò ad essere derisa.
4 Nascondere i propri difetti o i propri vizi può tornare utile all'uomo per salvaguardare la sua buona fama; Il tempo tuttavia sarà un buon giustiziere e la verità prima o poi verrà a galla.  
Prometheus et Dolus
De veritate et mendacio

Olim Prometheus saeculi figulus novi
cura subtili Veritatem fecerat,
ut iura posset inter homines reddere.
Subito accersitus nuntio magni Iovis
commendat officinam fallaci Dolo,
in disciplinam nuper quem receperat.
Hic studio accensus, facie simulacrum pari,
una statura, simile et membris omnibus,
dum tempus habuit callida finxit manu.
Quod prope iam totum mire cum positum foret,
lutum ad faciendos illi defecit pedes.
Redit magister, quo festinanter Dolus
metu turbatus in suo sedit loco.
Mirans Prometheus tantam similitudinem
propriae videri voluit gloriam.
Igitur fornaci pariter duo signa intulit;
quibus percoctis atque infuso spiritu
modesto gressu sancta incessit Veritas;
at trunca species haesit in vestigio.
Tunc falsa imago atque operis furtivi labor
Mendacium appellatum est; quod negantibus
pedes habere facile et ipse adsentio.
Simulata interdum initio prosunt hominibus,
sed tempore ipsa tamen apparet veritas.
Prometeo e Inganno
Inganno e verità

Un giorno Prometeo , creatore della nuova generazione di uomini, aveva plasmato , con mirabile maestria la Verità perchè facesse trionfare la giustizia tra gli uomini. Chiamato improvvisamente da un messo del grande Giove lascia il laboratorio in custodia all'Inganno falso per indole e che aveva da poco preso a bottega come apprendista. Questi, preso dal desiderio (di superare il maestro) con mano da artista, avendo tempo a disposizione, plasmò una statua di pari aspetto, statura ed anche identica in tutte le parti del corpo. Quando ormai quasi tutto era stato completato a regola d'arte gli venne a mancare l'argilla per farle i piedi. Ritorna il maestro, e Inganno, per paura di essere rimproverato, corre a sedersi al suo posto di lavoro. Ammirando la incredibile somiglianza con la propria opera, Prometeo, volle che il capolavoro fosse ammirato (da tutti). Pose, a questo punto, ambedue le statue nella fornace; dopo essere state cotte e avere ricevuto il soffio vitale la santa Verità avanzò a piccoli passi; quella priva dei piedi, invece, rimase ferma al suolo. La falsa statua , allora, frutto di lavoro fatto di nascosto, venne chiamata Menzogna; io, da parte mia, concordo con chi afferma che essa non ha i piedi. I vizi tenuti nascosti possono a volte essere di qualche giovamento agli uomini ma con il tempo la verità viene alla luce.
5/6 Mai guardare al senso materiale delle parole ma a quello recondito che, come scrive il poeta, è dalle parole nascosto come sotto un velo.  
De significatione paenarum Tartari
Sensum aestimandum esse, non verba


Ixion quod versari narratur rota,
volubilem Fortunam iactari docet.
Adversus altos Sisyphus montes agens
saxum labore summo, quod de vertice
sudore semper irrito revoluitur,
ostendit hominum sine fine esse miserias.
Quod stans in amne Tantalus medio sitit,
avari describuntur, quos circumfluit
usus bonorum, sed nil possunt tangere.
Urnis scelestae Danaides portant aquas,
pertusa nec complere possunt dolia;
immo luxuriae quicquid dederis perfluet.
Novem porrectus Tityos est per iugera,
tristi renatum suggerens poenae iecur;
quo quis maiorem possidet terrae locum,
hoc demonstratur cura graviore adfici.
Consulto involuit veritatem antiquitas
ut sapiens intellegeret, erraret rudis.
L’autore: Il vero significato delle pene inflitte nel Tartaro
Occorre capire il significato non le singole parole

Issione, poiché si racconta che è continuamente portato in giro da una ruota, ci insegna come la volubile Fortuna giri ora qua e ora la. Sisifo, che con incredibile fatica spinge sulla vetta di alti monti una pietra che sempre dalla sommità rotola a valle rendendo inutiloe ogni sforzo, ci ricorda che la miseria degli uomini non ha mai fine. Con il supplizio di Tantalo assetato, pur immerso nell'acqua di un fiume, sono raffigurati gli avari che, pur avendo a disposizione ogni sorta di beni, non ne possono toccare alcuno. Le empie figlie di Danao che portano acqua con delle brocche ma non riescono a riempire le giare perchè prive di fondo, significa che quanto dato per alimentare il vizio sarà buttato inutilmente. Titio, disteso a terra su una superfice di nove iugeri e che offre il suo fegato che continuamente si rigenera per essere straziato, dimostra, con ciò, che chi possiede tanto più terreno è gravato da tanti più affanni. Gli antichi hanno nascosto sotto il velo (delle immagini) il vero significato delle cose affinchè il saggio potesse comprendesse e l'ignorante rimanesse nell'errore.
7 L'incoerenza umana è tale che, pur comprendendo l'utilità che deriva dal bene, non lo si compia. La Pizia viene definita "pazza" perchè da brava professionista della profezia doveva prevedere e quindi ben sapere che i suoi insegnamenti, santi e giusti, sarebbero stati per gli ascoltatori lettera morta.  
Auctor
De oraculo Apollinis


Utilius nobis quid sit dic, Phoebe, obsecro,
qui Delphos et formosum Parnasum incolis.
Quid est? Sacratae vatis horrescunt comae,
tripodes moventur, mugit adytis Religio,
tremuntque lauri et ipse pallescit dies.
Voces resoluit icta Pytho numine:
"Audite, gentes, Delii monitus dei:
pietatem colite, vota superis reddite;
patriam, parentes, natos, castas coniuges
defendite armis, hostem ferro pellite;
amicos sublevate, miseris parcite;
bonis favete, subdolis ite obviam;
delicta vindicate, corripite impios,
punite turpi thalamos qui violant stupro;
malos cavete, nulli nimium credite."
Haec elocuta concidit virgo furens;
furens profecto, nam quae dixit perdidit.
L'autore
Il respondo della Pizia


Dicci, ti prego, o Febo, tu che abiti sia Delfo che lo splendido Parnaso, che cosa sia più utile per noi. Che accade? Si rizza la sacra chioma della profetessa, il tripode traballa, il simulacro del dio dai penetrali manda muggiti, l'alloro trema e perfino il giorno impallidisce. Ispirata dal dio la Pizia fece sentire la sua voce:"Ascoltate , o gente, quello che il dio di Delo vuole da voi: venerate la divinità, mantenete le promesse fatte; difendete con le armi la patria, i genitori, i figli, le caste spose, e con la spada respingete il nemico; sostenete gli amici, abbiate compassione degli infelici, favorite i buoni, opponetevi agli ipocriti; vendicate i delitti, fermate gli empi; guardatevi da chi vi vuol male, non siate troppo creduloni. Detto questo la vergine, fuori di senno, cadde svenuta: Certo non era padrona di sè in quel momento, infatti quanto disse si disperse al vento.
8 Chi ha un ingegno medio è spesso portato a credere di essere un genio  
Aesopus et scriptor
De malo scriptore se laudante

Aesopo quidam scripta recitarat mala,
in quis inepte multum se iactaverat.
Scire ergo cupiens quidnam sentiret senex,
"Numquid tibi" inquit "visus sum superbior?
Haud vana nobis ingeni fiducia est."
Confectus ille pessimo volumine,
"Ego" inquit "quod te laudas vehementer probo;
namque hoc ab alio numquam contiget tibi."
Esopo e il millantatore
Lo scribacchino che si loda

Un tizio aveva recitato a Esopo le sue pessime composizioni nelle quali scioccamente s'era date sperticate lodi. Desiderando conoscere cosa mai ne pensasse il vecchio chiese:"Forse ti sono sembrato un pò troppo vanaglorioso? Sono troppo fiducioso nel mio ingegno per ingannarmi". Straziato dalla lettura di quel pessimo volume Esopo rispose: "Concordo sul fatto che tu lodi te stesso; non ti capiterà mai, infatti, che lo faccia qualcun altro.
9 Il più delle volte giudichiamo i nostri simili dall'ingegno, dalla forza, dal coraggio e da cento altri segni esterni che non sempre sono adeguati ad indicare quanto è nascosto nell'animo.  
Pompeius et miles
Quam difficile sit hominem nosse

Magni Pompeii mile vasti corporis
fracte loquendo et ambulando molliter
famam cinaedi traxerat certissimam.
Hic insidiatus nocte iumentis ducis
cum veste et auro et magno argenti pondere
avertit mulos. Factum rumor dissipat;
arguitur miles, rapitur in praetorium.
Tum Magnus: "Quid ais? Tune me, commilito,
spoliare es ausus?" Ille continuo exscreat
sibi in sinistram et sputum digitis dissipat:
"Sic, imperator, oculi exstillescant mei,
si vidi aut tetigi." Tum vir animi simplicis
id dedecus castrorum propelli iubet,
nec cadere in illum credit tantam audaciam.
Breve tempus intercessit, et fidens manu
unum de nostris provocabat barbarus.
Sibi quisque metuit; primi iam mussant duces.
Tandem cinaedus habitu, sed Mars viribus,
adit sedentem pro tribunali ducem,
et voce molli: "Licet?" eum vero eici,
ut in re atroci, Magnus stomachans imperat.
Tum quidam senior ex amicis principis:
"Hunc ego committi satius Fortunae arbitror,
in quo iactura levis est, quam fortem virum,
qui casu victus temeritatis te arguat."
Assensit Magnus et permisit militi
prodire contra; qui mirante exercitu
dicto celerius hostis abscidit caput,
victorque rediit. His tunc Pompeius super:
"Corona, miles, equidem te dono libens,
quia vindicasti laudem Romani imperi;
sed exstillescant oculi sic" inquit "mei,"
turpe illud imitans ius iurandum militis,
"nisi tu abstulisti sarcinas nuper meas."
Pompeo Magno e un suo soldato
Quanto risulta difficile conoscere gli uomini

Un soldato di Pompeo Magno, di grande corporatura, si era attirato per il suo modo effeminato di parlare e il suo passo molle e delicato la nomea certa di invertito. Questi nottetempo dopo aver teso un agguato agli animali da soma del comandante ruba i muli carichi di suppellettili, di oggetti d'oro e di una gran quantità di denaro. Le chiacchiere dei soldati divulgano l'accaduto; si incolpa il soldato, lo si porta alla presenza del comandante. Allora il Grande chiese:"E che? Forse che tu , commilitone, hai osato derubarmi?". Quello subito sputa alla sua sinistra e con ledita sparge qua e la lo sputo. "Così, o comandante, i miei occhi possano dissolversi in stille, se vidi o toccai (quello per cui sono accusato). Allora l'uomo (Pompeo) di indole generosa e non maligna ordina che quel disonore dell'esercito sia allontanato non credendo che in lui potesse albergare tanta audacia. Non passò tanto tempo che, confidando nella sua forza, un soldato nemico sfidava uno dei romani. Ognuno temette per la sua incolumità; anzi i primi che si mostrano titubanti sono i comandanti. Quell'effeminato in apparenza ma un vero Marte in quanto a forza, si avvicinò infine al comandante che stava seduto a consulto e con voce femminea chiese:"Posso? (accettare la sfida)". Ma il Grande adirandosi comanda di cacciare l'uomo per arroganza della richiesta. Allora uno degli anziani tra gli amici del comandante:"Io ritengo sia più conveniente affidare alla Sorte costui, la cui perdita rappresenta un minimo danno, piuttosto che un forte soldato che, se sconfitto, saresti incolpato di sconsideratezza". Il Grande assentì e permise al soldato di uscire incontro al nemico; con stupore di tutto l'esercito, più presto che a dirsi, decapitò il nemico e tornò vincitore. Di fronte a questo fatto Pompeo disse :"Soldato, ti faccio ben volentieri dono di questa corona perchè hai vendicato l'onore dell'impero Romano; ma possano i miei occhi dissolversi in stille " aggiunse imitando quello sconcio modo di giurare del soldato" se non tanto tempo fa non sei stato tu a rubare il mio carico".
10    
Iuno, Venus et gallina
De mulierum libidine

Cum castitatem Iuno laudaret suam,
iocunditatis causa non renuit Venus,
nullamque ut affirmaret esse illi parem
interrogasse sic gallinam dicitur:
"Dic, sodes, quanto possis satiari cibo?"
Respondit illa "Quidquid dederis, satis erit,
sic ut concedas pedibus aliquid scalpere."
"Ne scalpas" inquit "satis est modius tritici?
"Plane, immo nimium est, sed permitte scalpere."
"Ex toto ne quid scalpas, quid desideras?"
Tum denique illa fassa est naturae malum:
"Licet horreum mi pateat, ego scalpam tamen."
Risisse Iuno dicitur Veneris iocos,
quia per gallinam denotavit feminas.
Giunone, Venere e la gallina
La libidine delle donne

Poichè Giunone vantava la sua fedeltà coniugale, Venere in vena di divertirsi non la contraddisse e, per dimostrare che nessuna dea o donna mortale fosse pari a lei in fedeltà, si dice chiedesse ad una gallina:" Dimmi amica, quanto cibo ti serve per essere sazia?" Quella rispose:"Qualunque quantità sarà sufficiente purchè mi si permetta di razzolare qua e là!". "Per evitare di razzolare" insiste Venere" ti basta un moggio di grano?". "Altroché! Addirittura è troppo, ma lasciami razzolare". "Posso sapere cosa desideri per smettere di razzolare?". Allora quella confessò questa sua naturale inclinazione :" Razzolerei anche se mi spalancassi un granaio". Si dice che Giunone sorridesse a questo divertente apologo perchè con l'esempio della gallina Venere ben interpretò la psicologia femminile.
   
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