Simius et vulpes Avarum etiam quod sibi superest non libenter dare.
Vulpem rogabat partem caudae simius,
contegere honeste posset ut nudas nates;
cui sic maligna: "Longior fiat licet,
tamen illam citius per lutum et spinas traham,
partem tibi quam quamvis parvam impertiar."
La scimmia e la volpe L'avaro non da volentieri nemmeno quello che gli
avanza.
Una scimmia chiedeva a una volpe un pezzo di coda per coprirsi
decorosamente le nude natiche; così gli rispose quell'avara:"Quand'anche
diventasse più lunga la trascinerei subito nel fango
e tra le spine piuttosto che dividerne con te una parte anche
se piccola".
2E' da savi essere contenti di ciò che
si possiede senza desiderare l'irraggiungibile.
Auctor Non esse plus aequo petendum
Arbitrio si natura finxisset meo
genus mortale, longe foret instructius:
man cuncta nobis attribuisset commoda,
quaecumque indulgens Fortuna animali dedit:
Elephanti vires, et leonis impetum,
cornicisi aevum , gloriam tauri trucis,
equi velocis placidam mansuetudinem ,
et adesset homini sua tamen sollertia:
Nimirum in caelo secum ridet Iuppiter,
magno haec consilio qui negavit hominibus,
ne sceptrum mundi raperet nostra audacia.
Ergo contenti munere invicti Iovis
fatalis annos decurramus temporis,
nec plus conemur quam sinit mortalitas.
L'autore Non si deve chiedere più di quanto sia giusto
Se la natura avesse creato gli uomini secondo il mio volere
di gran lunga sarebbero più provvisti di buone doti:
avrebbe infatti attribuito a noi tutti i doni che la sorte benigna
ha dato a tutti gli animali: la forza dell'elefante e lo slancio
aggressivo del leone, la longevità della cornacchia ,
la fierezza del truce toro, la calma e la mansuetudine del veloce
cavallo e che l'uomo conservasse la sua intelligenza: Senza
dubbio in cielo, Giove, che con grande accortezza ha negato
tutto questo agli uomini affinché la nostra audacia non
ci permettesse di impadronirci del dominio del mondo, se la
ride. Pertanto, contenti dei doni elargiti dall'invincibile
Giove, trascorriamo gli anni di vita concessici dal Fato e non
desideriamo più di quanto ci consenta la nostra natura
mortale.
Mercurium hospitio mulieres olim duae
inliberali et sordido receperant;
quarum una in cunis parvum habebat filium,
quaestus placebat alteri meretricius.
Ergo ut referret gratiam officiis parem,
abiturus et iam limen excedens ait:
"Deum videtis; tribuam vobis protinus
quod quaeque optarit." Mater suppliciter rogat
barbatum ut videat natum quam primum suum;
moecha ut sequatur sese quidquid tetigerit.
Volat Mercurius, intro redeunt mulieres.
Barbatus infans, ecce, vagitus ciet.
Id forte meretrix cum rideret validius,
nares replevit umor ut fieri solet.
Emungere igitur se volens prendit manu
traxitque ad terram nasi longitudinem,
et aliam ridens ipsa ridenda extitit.
Mercurio e le due donne Ancora una favola con lo stesso soggetto
Due donne avevano, un giorno, accolto nel loro tugurio indecoroso
e sudicio il dio Mercurio: una di queste aveva il figlio piccolo
nella culla all'altra piaceva il guadagno che le veniva dalla
attività di meretrice. Ora, mentre se ne stava andando
ed era già sulla soglia, per ricompensarle per il servizio
disse loro:"State vedendo un dio; vi concederò immediatamente
qualunque cosa desideriate". La madre supplica di vedere,
quanto prima, il figlio con la barba; la prostituta chiede che
ogni cosa che tocca la segua. Mercurio si allontana in volo
mentre le due donne rientrano. (Come richiesto) ecco il neonato,
a cui è spuntata la barba, che vagisce. Alla meretrice
che rideva oltre misura per questo, il nuco, come spesso accade
le riempì le narici. Volendosi soffiare il naso lo afferrò
con la mano e lo allungò fino a terra e, mentre rideva
per l'altra, pure lei si trovò ad essere derisa.
4Nascondere i propri difetti o i propri vizi
può tornare utile all'uomo per salvaguardare la sua buona
fama; Il tempo tuttavia sarà un buon giustiziere e la
verità prima o poi verrà a galla.
Prometheus et Dolus De veritate et mendacio
Olim Prometheus saeculi figulus novi
cura subtili Veritatem fecerat,
ut iura posset inter homines reddere.
Subito accersitus nuntio magni Iovis
commendat officinam fallaci Dolo,
in disciplinam nuper quem receperat.
Hic studio accensus, facie simulacrum pari,
una statura, simile et membris omnibus,
dum tempus habuit callida finxit manu.
Quod prope iam totum mire cum positum foret,
lutum ad faciendos illi defecit pedes.
Redit magister, quo festinanter Dolus
metu turbatus in suo sedit loco.
Mirans Prometheus tantam similitudinem
propriae videri voluit gloriam.
Igitur fornaci pariter duo signa intulit;
quibus percoctis atque infuso spiritu
modesto gressu sancta incessit Veritas;
at trunca species haesit in vestigio.
Tunc falsa imago atque operis furtivi labor
Mendacium appellatum est; quod negantibus
pedes habere facile et ipse adsentio.
Simulata interdum initio prosunt hominibus,
sed tempore ipsa tamen apparet veritas.
Prometeo e Inganno Inganno e verità
Un giorno Prometeo , creatore della nuova generazione di
uomini, aveva plasmato , con mirabile maestria la Verità
perchè facesse trionfare la giustizia tra gli uomini.
Chiamato improvvisamente da un messo del grande Giove lascia
il laboratorio in custodia all'Inganno falso per indole e che
aveva da poco preso a bottega come apprendista. Questi, preso
dal desiderio (di superare il maestro) con mano da artista,
avendo tempo a disposizione, plasmò una statua di pari
aspetto, statura ed anche identica in tutte le parti del corpo.
Quando ormai quasi tutto era stato completato a regola d'arte
gli venne a mancare l'argilla per farle i piedi. Ritorna il
maestro, e Inganno, per paura di essere rimproverato, corre
a sedersi al suo posto di lavoro. Ammirando la incredibile somiglianza
con la propria opera, Prometeo, volle che il capolavoro fosse
ammirato (da tutti). Pose, a questo punto, ambedue le statue
nella fornace; dopo essere state cotte e avere ricevuto il soffio
vitale la santa Verità avanzò a piccoli passi;
quella priva dei piedi, invece, rimase ferma al suolo. La falsa
statua , allora, frutto di lavoro fatto di nascosto, venne chiamata
Menzogna; io, da parte mia, concordo con chi afferma che essa
non ha i piedi. I vizi tenuti nascosti possono a volte essere
di qualche giovamento agli uomini ma con il tempo la verità
viene alla luce.
5/6
Mai guardare al senso materiale delle parole ma a quello recondito
che, come scrive il poeta, è dalle parole nascosto come
sotto un velo.
De significatione paenarum Tartari Sensum aestimandum esse, non verba
Ixion quod versari narratur rota,
volubilem Fortunam iactari docet.
Adversus altos Sisyphus montes agens
saxum labore summo, quod de vertice
sudore semper irrito revoluitur,
ostendit hominum sine fine esse miserias.
Quod stans in amne Tantalus medio sitit,
avari describuntur, quos circumfluit
usus bonorum, sed nil possunt tangere.
Urnis scelestae Danaides portant aquas,
pertusa nec complere possunt dolia;
immo luxuriae quicquid dederis perfluet.
Novem porrectus Tityos est per iugera,
tristi renatum suggerens poenae iecur;
quo quis maiorem possidet terrae locum,
hoc demonstratur cura graviore adfici.
Consulto involuit veritatem antiquitas
ut sapiens intellegeret, erraret rudis.
L’autore: Il vero significato
delle pene inflitte nel Tartaro Occorre capire il significato non le singole parole
Issione, poiché si racconta che è continuamente
portato in giro da una ruota, ci insegna come la volubile Fortuna
giri ora qua e ora la. Sisifo, che con incredibile fatica spinge
sulla vetta di alti monti una pietra che sempre dalla sommità
rotola a valle rendendo inutiloe ogni sforzo, ci ricorda che
la miseria degli uomini non ha mai fine. Con il supplizio di
Tantalo assetato, pur immerso nell'acqua di un fiume, sono raffigurati
gli avari che, pur avendo a disposizione ogni sorta di beni,
non ne possono toccare alcuno. Le empie figlie di Danao che
portano acqua con delle brocche ma non riescono a riempire le
giare perchè prive di fondo, significa che quanto dato
per alimentare il vizio sarà buttato inutilmente. Titio,
disteso a terra su una superfice di nove iugeri e che offre
il suo fegato che continuamente si rigenera per essere straziato,
dimostra, con ciò, che chi possiede tanto più
terreno è gravato da tanti più affanni. Gli antichi
hanno nascosto sotto il velo (delle immagini) il vero significato
delle cose affinchè il saggio potesse comprendesse e
l'ignorante rimanesse nell'errore.
7L'incoerenza umana è tale che, pur
comprendendo l'utilità che deriva dal bene, non lo si
compia. La Pizia viene definita "pazza" perchè
da brava professionista della profezia doveva prevedere e quindi
ben sapere che i suoi insegnamenti, santi e giusti, sarebbero
stati per gli ascoltatori lettera morta.
Auctor
De oraculo Apollinis
Utilius nobis quid sit dic, Phoebe, obsecro,
qui Delphos et formosum Parnasum incolis.
Quid est? Sacratae vatis horrescunt comae,
tripodes moventur, mugit adytis Religio,
tremuntque lauri et ipse pallescit dies.
Voces resoluit icta Pytho numine:
"Audite, gentes, Delii monitus dei:
pietatem colite, vota superis reddite;
patriam, parentes, natos, castas coniuges
defendite armis, hostem ferro pellite;
amicos sublevate, miseris parcite;
bonis favete, subdolis ite obviam;
delicta vindicate, corripite impios,
punite turpi thalamos qui violant stupro;
malos cavete, nulli nimium credite."
Haec elocuta concidit virgo furens;
furens profecto, nam quae dixit perdidit.
L'autore
Il respondo della Pizia
Dicci, ti prego, o Febo, tu che abiti sia Delfo che lo splendido
Parnaso, che cosa sia più utile per noi. Che accade?
Si rizza la sacra chioma della profetessa, il tripode traballa,
il simulacro del dio dai penetrali manda muggiti, l'alloro trema
e perfino il giorno impallidisce. Ispirata dal dio la Pizia
fece sentire la sua voce:"Ascoltate , o gente, quello che
il dio di Delo vuole da voi: venerate la divinità, mantenete
le promesse fatte; difendete con le armi la patria, i genitori,
i figli, le caste spose, e con la spada respingete il nemico;
sostenete gli amici, abbiate compassione degli infelici, favorite
i buoni, opponetevi agli ipocriti; vendicate i delitti, fermate
gli empi; guardatevi da chi vi vuol male, non siate troppo creduloni.
Detto questo la vergine, fuori di senno, cadde svenuta: Certo
non era padrona di sè in quel momento, infatti quanto
disse si disperse al vento.
8Chi ha un ingegno medio è spesso portato a credere di
essere un genio
Aesopus et scriptor De malo scriptore se laudante
Aesopo quidam scripta recitarat mala,
in quis inepte multum se iactaverat.
Scire ergo cupiens quidnam sentiret senex,
"Numquid tibi" inquit "visus sum superbior?
Haud vana nobis ingeni fiducia est."
Confectus ille pessimo volumine,
"Ego" inquit "quod te laudas vehementer probo;
namque hoc ab alio numquam contiget tibi."
Esopo e il millantatore Lo scribacchino che si loda
Un tizio aveva recitato a Esopo le sue pessime composizioni
nelle quali scioccamente s'era date sperticate lodi. Desiderando
conoscere cosa mai ne pensasse il vecchio chiese:"Forse
ti sono sembrato un pò troppo vanaglorioso? Sono troppo
fiducioso nel mio ingegno per ingannarmi". Straziato dalla
lettura di quel pessimo volume Esopo rispose: "Concordo
sul fatto che tu lodi te stesso; non ti capiterà mai,
infatti, che lo faccia qualcun altro.
9Il più delle volte giudichiamo i nostri simili
dall'ingegno, dalla forza, dal coraggio e da cento altri segni
esterni che non sempre sono adeguati ad indicare quanto è
nascosto nell'animo.
Pompeius et miles Quam difficile sit hominem nosse
Magni Pompeii mile vasti corporis
fracte loquendo et ambulando molliter
famam cinaedi traxerat certissimam.
Hic insidiatus nocte iumentis ducis
cum veste et auro et magno argenti pondere
avertit mulos. Factum rumor dissipat;
arguitur miles, rapitur in praetorium.
Tum Magnus: "Quid ais? Tune me, commilito,
spoliare es ausus?" Ille continuo exscreat
sibi in sinistram et sputum digitis dissipat:
"Sic, imperator, oculi exstillescant mei,
si vidi aut tetigi." Tum vir animi simplicis
id dedecus castrorum propelli iubet,
nec cadere in illum credit tantam audaciam.
Breve tempus intercessit, et fidens manu
unum de nostris provocabat barbarus.
Sibi quisque metuit; primi iam mussant duces.
Tandem cinaedus habitu, sed Mars viribus,
adit sedentem pro tribunali ducem,
et voce molli: "Licet?" eum vero eici,
ut in re atroci, Magnus stomachans imperat.
Tum quidam senior ex amicis principis:
"Hunc ego committi satius Fortunae arbitror,
in quo iactura levis est, quam fortem virum,
qui casu victus temeritatis te arguat."
Assensit Magnus et permisit militi
prodire contra; qui mirante exercitu
dicto celerius hostis abscidit caput,
victorque rediit. His tunc Pompeius super:
"Corona, miles, equidem te dono libens,
quia vindicasti laudem Romani imperi;
sed exstillescant oculi sic" inquit "mei,"
turpe illud imitans ius iurandum militis,
"nisi tu abstulisti sarcinas nuper meas."
Pompeo Magno e un suo soldato Quanto risulta difficile conoscere gli uomini
Un soldato di Pompeo Magno, di grande corporatura, si era attirato
per il suo modo effeminato di parlare e il suo passo molle e
delicato la nomea certa di invertito. Questi nottetempo dopo
aver teso un agguato agli animali da soma del comandante ruba
i muli carichi di suppellettili, di oggetti d'oro e di una gran
quantità di denaro. Le chiacchiere dei soldati divulgano
l'accaduto; si incolpa il soldato, lo si porta alla presenza
del comandante. Allora il Grande chiese:"E che? Forse che
tu , commilitone, hai osato derubarmi?". Quello subito
sputa alla sua sinistra e con ledita sparge qua e la lo sputo.
"Così, o comandante, i miei occhi possano dissolversi
in stille, se vidi o toccai (quello per cui sono accusato).
Allora l'uomo (Pompeo) di indole generosa e non maligna ordina
che quel disonore dell'esercito sia allontanato non credendo
che in lui potesse albergare tanta audacia. Non passò
tanto tempo che, confidando nella sua forza, un soldato nemico
sfidava uno dei romani. Ognuno temette per la sua incolumità;
anzi i primi che si mostrano titubanti sono i comandanti. Quell'effeminato
in apparenza ma un vero Marte in quanto a forza, si avvicinò
infine al comandante che stava seduto a consulto e con voce
femminea chiese:"Posso? (accettare la sfida)". Ma
il Grande adirandosi comanda di cacciare l'uomo per arroganza
della richiesta. Allora uno degli anziani tra gli amici del
comandante:"Io ritengo sia più conveniente affidare
alla Sorte costui, la cui perdita rappresenta un minimo danno,
piuttosto che un forte soldato che, se sconfitto, saresti incolpato
di sconsideratezza". Il Grande assentì e permise
al soldato di uscire incontro al nemico; con stupore di tutto
l'esercito, più presto che a dirsi, decapitò il
nemico e tornò vincitore. Di fronte a questo fatto Pompeo
disse :"Soldato, ti faccio ben volentieri dono di questa
corona perchè hai vendicato l'onore dell'impero Romano;
ma possano i miei occhi dissolversi in stille " aggiunse
imitando quello sconcio modo di giurare del soldato" se
non tanto tempo fa non sei stato tu a rubare il mio carico".
Cum castitatem Iuno laudaret suam,
iocunditatis causa non renuit Venus,
nullamque ut affirmaret esse illi parem
interrogasse sic gallinam dicitur:
"Dic, sodes, quanto possis satiari cibo?"
Respondit illa "Quidquid dederis, satis erit,
sic ut concedas pedibus aliquid scalpere."
"Ne scalpas" inquit "satis est modius tritici?
"Plane, immo nimium est, sed permitte scalpere."
"Ex toto ne quid scalpas, quid desideras?"
Tum denique illa fassa est naturae malum:
"Licet horreum mi pateat, ego scalpam tamen."
Risisse Iuno dicitur Veneris iocos,
quia per gallinam denotavit feminas.
Giunone, Venere e la gallina La libidine delle donne
Poichè Giunone vantava la sua fedeltà coniugale,
Venere in vena di divertirsi non la contraddisse e, per dimostrare
che nessuna dea o donna mortale fosse pari a lei in fedeltà,
si dice chiedesse ad una gallina:" Dimmi amica, quanto
cibo ti serve per essere sazia?" Quella rispose:"Qualunque
quantità sarà sufficiente purchè mi si
permetta di razzolare qua e là!". "Per evitare
di razzolare" insiste Venere" ti basta un moggio di
grano?". "Altroché! Addirittura è troppo,
ma lasciami razzolare". "Posso sapere cosa desideri
per smettere di razzolare?". Allora quella confessò
questa sua naturale inclinazione :" Razzolerei anche se
mi spalancassi un granaio". Si dice che Giunone sorridesse
a questo divertente apologo perchè con l'esempio della
gallina Venere ben interpretò la psicologia femminile.
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