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La trebbiatura
Eugenio Milza

In campagna la trebbiatura sull’aia costituiva un momento di festa per tutti.
Era il momento in cui si vedeva il risultato di tante fatiche.
Tutte le famiglie del circondario ne erano coinvolte, sia perchè tutti avevano frumento da trebbiare, sia perchè ci si aiutava a vicenda.
Allora si diceva : “ Fare i cambi “.
Le donne erano le prime a voler sapere il giorno e l’ora in cui sarebbe arrivata “ la machina da batt “ Così era chiamata la trebbiatrice.
Loro dovevano essere pronte per il vitto e andavano a gara per far bella figura.
In quella circostanza l’impegno per la casa era notevole.
C’era da preparare più pane e più pasta, da ammazzare qualche anatra o gallina e non doveva mai mancare la classica torta fatta con uova, farina e con “ Il pane degli angeli”.
Nei tempi più lontani la trattrice era a vapore e la trebbiatrice si limitava a sgranare il grano senza legare la paglia. Successivamente vennero impiegate trebbiatrici abbinate ad una pressa che faceva le balle di paglia.
Poi la pressa fu incorporata nella trebbiatrice.
Il convoglio era corredato da un carro su cui erano sistemati i fusti del carburante e del grasso, lunghe cinghie per trasmettere il movimento dal trattore alla trebbiatrice, gli attrezzi per il piazzamento della macchina, il cric a manovella e la cassetta delle chiavi.
Di solito la “macchina” era accompagnata da cinque operatori: il proprietario, il macchinista, il paglierino e due addetti alla pressa.
I compiti erano così suddivisi: il proprietario vigilava su tutte le operazioni, curava che la macchina fosse piazzata a dovere. Doveva essere in bolla, cioè su terreno livellato. Curava che la puleggia del trattore fosse ben allineata con quella della macchina e della pressa altrimenti la grossa cinghia che azionava tutti i congegni avrebbe potuto sfilarsi dalle pulegge, bloccando così le operazioni di trebbiatura.
Procedendo con gli altri addetti, il macchinista doveva trasferire tutto il convoglio per trebbiare da una cascina all’altra, collaborava al suo piazzamento, riforniva di carburante il trattore e ingrassava tutti gli organi in movimento.
Il paglierino lavorava sulla parte alta della trebbiatrice ed aveva il compito di infilare, uno alla volta, i covoni nella bocca sgranatrice. Questa mansione era molto pericolosa. Qualcuno un po’ distratto ci aveva rimesso la mano, altri il braccio.
I due addetti alla pressa avevano il compito di fermarla di tanto in tanto con una leva per introdurre un grosso ago ( l’aguccia) piegato a C.
Questo era dotato di scanalature che permettevano di infilare nella paglia accumulata nella pressa il filo di ferro con cui si legavano le balle.
Normalmente il filo si acquistava in matasse presso il Consorzio Agrario, ma c’era anche chi utilizzava, per risparmiare, il filo già utilizzato l’anno precedente, dopo averlo sottoposto a stiratura.
Da ragazzo, durante le vacanze scolastiche, lavorai anch’io come addetto alla pressa.

Tutta la famiglia collaborava.
In più c’era l’aiuto dei vicini, degli amici e dei parenti.
Le donne erano impegnate in casa.
Altri, uomini e donne, con passamano facevano arrivare i covoni dal cassero al paglierino.
Alcuni portavano i sacchi di grano sul solaio, altri le balle di paglia sotto il portico o le accatastavano in grosse pile all’aperto.
Le macchine più vecchie non erano dotate di pesa meccanica.
Il grano scendeva dalla trebbiatrice e veniva raccolto in un contenitore cilindrico capace di contenere poco più di 34 litri e munito di due maniglie laterali per lo svuotamento.
Si chiamava “ stèr”, lo staio, misura per cereali, molto in uso a quei tempi.
Ogni volta che lo staio si svuotava nel sacco con un coltellino si faceva una piccola tacca su un bastone.
Il bastone era chiamato “ la stëca”.
A misurare il grano si metteva sempre uno di fiducia.
A lavoro concluso si contavano le tacche e si otteneva la quantità totale del grano trebbiato.
Il proprietario della trebbiatrice prendeva nota e sarebbe poi passato a fine anno a riscuotere il suo compenso.
I ragazzi o i più anziani ammucchiavano la pula.
I bambini di tanto in tanto portavano da bere a tutti.
Alla sera seduti sull’aia, stanchi ma felici, si cantavano le vecchie canzoni degli alpini.
Il buon vino contribuiva a rendere allegra la compagnia.
Non mancava chi, avendo alzato troppo il gomito, non riusciva a raggiungere il letto nella sua cascina anche se poco lontana e si fermava sul posto a dormire nella stalla.
Ricordo che uno di questi amanti del buon vino, vedendo entrare il “ bergamino”, così si chiamava l’addetto alla mungitura, esordì dicendo : “ Questa mattina nella stalla c’è una mucca in più”.

   
   
   
   
 
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