In campagna la trebbiatura sull’aia costituiva
un momento di festa per tutti.
Era il momento in cui si vedeva il risultato di tante
fatiche.
Tutte le famiglie del circondario ne erano coinvolte,
sia perchè tutti avevano frumento da trebbiare,
sia perchè ci si aiutava a vicenda.
Allora si diceva : “ Fare i cambi “.
Le donne erano le prime a voler sapere il giorno e l’ora
in cui sarebbe arrivata “ la machina da
batt “ Così era chiamata la trebbiatrice.
Loro dovevano essere pronte per il vitto e andavano
a gara per far bella figura.
In quella circostanza l’impegno per la casa era
notevole.
C’era da preparare più pane e più
pasta, da ammazzare qualche anatra o gallina e non doveva
mai mancare la classica torta fatta con uova, farina
e con “ Il pane degli angeli”.
Nei tempi più lontani la trattrice era a vapore
e la trebbiatrice si limitava a sgranare il grano senza
legare la paglia. Successivamente vennero impiegate
trebbiatrici abbinate ad una pressa che faceva le balle
di paglia.
Poi la pressa fu incorporata nella trebbiatrice.
Il convoglio era corredato da un carro su cui erano
sistemati i fusti del carburante e del grasso, lunghe
cinghie per trasmettere il movimento dal trattore alla
trebbiatrice, gli attrezzi per il piazzamento della
macchina, il cric a manovella e la cassetta delle chiavi.
Di solito la “macchina” era accompagnata
da cinque operatori: il proprietario, il macchinista,
il paglierino e due addetti alla pressa.
I compiti erano così suddivisi: il proprietario
vigilava su tutte le operazioni, curava che la macchina
fosse piazzata a dovere. Doveva essere in bolla, cioè
su terreno livellato. Curava che la puleggia del trattore
fosse ben allineata con quella della macchina e della
pressa altrimenti la grossa cinghia che azionava tutti
i congegni avrebbe potuto sfilarsi dalle pulegge, bloccando
così le operazioni di trebbiatura.
Procedendo con gli altri addetti, il macchinista doveva
trasferire tutto il convoglio per trebbiare da una cascina
all’altra, collaborava al suo piazzamento, riforniva
di carburante il trattore e ingrassava tutti gli organi
in movimento.
Il paglierino lavorava sulla parte alta della trebbiatrice
ed aveva il compito di infilare, uno alla volta, i covoni
nella bocca sgranatrice. Questa mansione era molto pericolosa.
Qualcuno un po’ distratto ci aveva rimesso la
mano, altri il braccio.
I due addetti alla pressa avevano il compito di fermarla
di tanto in tanto con una leva per introdurre un grosso
ago ( l’aguccia) piegato a C.
Questo era dotato di scanalature che permettevano di
infilare nella paglia accumulata nella pressa il filo
di ferro con cui si legavano le balle.
Normalmente il filo si acquistava in matasse presso
il Consorzio Agrario, ma c’era anche chi utilizzava,
per risparmiare, il filo già utilizzato l’anno
precedente, dopo averlo sottoposto a stiratura.
Da ragazzo, durante le vacanze scolastiche, lavorai
anch’io come addetto alla pressa.
Tutta la famiglia collaborava.
In più c’era l’aiuto dei vicini,
degli amici e dei parenti.
Le donne erano impegnate in casa.
Altri, uomini e donne, con passamano facevano arrivare
i covoni dal cassero al paglierino.
Alcuni portavano i sacchi di grano sul solaio, altri
le balle di paglia sotto il portico o le accatastavano
in grosse pile all’aperto.
Le macchine più vecchie non erano dotate di pesa
meccanica.
Il grano scendeva dalla trebbiatrice e veniva raccolto
in un contenitore cilindrico capace di contenere poco
più di 34 litri e munito di due maniglie laterali
per lo svuotamento.
Si chiamava “ stèr”,
lo staio, misura per cereali, molto in uso a quei tempi.
Ogni volta che lo staio si svuotava nel sacco con un
coltellino si faceva una piccola tacca su un bastone.
Il bastone era chiamato “ la stëca”.
A misurare il grano si metteva sempre uno di fiducia.
A lavoro concluso si contavano le tacche e si otteneva
la quantità totale del grano trebbiato.
Il proprietario della trebbiatrice prendeva nota e sarebbe
poi passato a fine anno a riscuotere il suo compenso.
I ragazzi o i più anziani ammucchiavano la pula.
I bambini di tanto in tanto portavano da bere a tutti.
Alla sera seduti sull’aia, stanchi ma felici,
si cantavano le vecchie canzoni degli alpini.
Il buon vino contribuiva a rendere allegra la compagnia.
Non mancava chi, avendo alzato troppo il gomito, non
riusciva a raggiungere il letto nella sua cascina anche
se poco lontana e si fermava sul posto a dormire nella
stalla.
Ricordo che uno di questi amanti del buon vino, vedendo
entrare il “ bergamino”,
così si chiamava l’addetto alla mungitura,
esordì dicendo : “ Questa mattina nella
stalla c’è una mucca in più”.
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